Fu quale cappellano del carcere che Padre Lino ottenne l’affetto maggiore, soprattutto da gente ruvida, da tempo non abituata ad amare né ad essere amata. Il suo linguaggio, semplice e scarno in superficie, era ricchissimo interiormente nel nome della carità: sapeva penetrare profondamente nell’animo dei carcerati, dando loro la certezza che c’era Qualcuno che comprendeva il loro soffrire, condivideva la loro sofferenza e sapeva offrire il proprio perdono.
Una volta entra in un caffè ed ordina un gelato. C’è un morente alle carceri che smania dalla febbre e invoca quel dolce e fresco ristoro. E Padre Lino corre, corre col suo gelido tesoro in mano, a render meno dure le ultime ore di un condannato.
Per le strade lo fermano: “Padre un bicchiere di lambrusco?”. Accetta, finge di berne un goccio, ma subito dopo trae dalle saccocce del saio una boccetta… Consolerà un ergastolano.
Per merito suo il carcere di Parma era diventato il migliore d’Italia. Le punizioni erano miti e i detenuti rispettosi e disciplinati. Saranno i carcerati a vegliarlo la notte precedente le esequie e a costruirgli la cassa.
Saranno ancora loro i protagonisti del più toccante dei Fioretti: La libertà di Padre Lino.