Nebbie caliginose calano sulla pianura parmense, un tempo, anni or sono, bianca di neve, un soffice lenzuolo sin su verso la collina e più lungi l’Appennino, dove per ardue strade, superandolo, si arrivava poi sin verso il mare: era la stagione in cui Egli, nella sua città adottiva, uscito dal ricovero dell’Annunziata, dove le ore mattutine aveva impiegate nella preghiera, usava fermarsi a cianciare con i molti amici che aveva tra il popolo, compresi, deferenti e lusingati dal tatto di questo frate che
parlava come loro, si interessava dei loro problemi, grandi o minori che fossero: e per tutti aveva un saluto, una parola, un consiglio, un conforto, un ammonimento, da piazza della Rocchetta, poco lungi dal Crocione delle Grazie, lungo al Pont ad mez, e poi giù dalla scaletta della Ghiaia e da borgo del voltone, per le viuzze senza pretese di allora, sino al carcere, dove era cappellano; carcere che anch’esso si chiamava di San Francesco, e in alto alla facciata, di antica chiesa sconsacrata, ridotta a simile ospizio, uno di quei rosoni francescani, superstite mistico segno di sofferenza e di preghiera: ivi era al suo posto, tra i suoi discepoli, singolare collettività di belve ammansite e da Lui rieducate, riscattate, ricondotte alla speranza, padre Lino Maupas, dei frali minori, dalmata, divenuto parmigiano d’elezione, pieno d’amore per uomini e cose.
Ero di quelli che l’aspettavano quotidianamente per la consueta strada e lungo la quale usava fermarsi per dire una parola; a chi un cenno, a chi un compendioso discorso; a me, che conosceva, allora, onusto di peccato seguendo false immagini di bene, non dimentico di riservarmi una parola che, senza parere, fosse un ammonimento, un richiamo; ed io l’ascoltavo come un essere superiore, che consentiva parlarmi da uguale, da amico docile e suasivo, a me che non ascoltavo nessuno. Quando apprese che, ancora in grigio-verde, m’ero iscritto a studiare diritto, mi disse: «fai bene: vi sono tanti infelici che han bisogno di aiuto; io non posso dare che il conforto della fede; tu vedrai di poterli ricondurre nel mondo». Alludeva ai suoi carcerati. Poiché il Suo pensiero era questo: non dissociato mai dal conforto e dal ricupero di quegli infelici, che le condanne più gravi assimilavano alle bestie. Egli sapeva trarli dal loro isolamento; faceva nascere un fuggevole sorriso, disserrando le loro labbra crudeli, schiudendo il cerchio degli anni di isolamento e di pena; sapeva indurli alla speranza o alla rassegnazione; al sogno di una nuova vita, riconducendoli al bene, a Dio. Povero frate: grande di bontà, di intelligenza, di acume psicologico; in una dormiente ignoranza, non mancava di arguzia e di sottile spirito blandamente caustico.
Altra volta scrissi di Lui e di quello che, certo, non in senso (come dire?) tecnico, parvemi, poi, un miracolo. «Sarai avvocato, anzi professore — mi disse —; anche mio nipote, che studia con te, vi aspira: io ho messo insieme più docenze». E al mio sguardo stupefatto: «una in criminologia, una in reati da poco, furti di galline, una in atti di violenza e prepotenza». E sorrideva: di sé, della sua vita, dell’ambiente in cui viveva, al quale s’era dedicato, nel quale persuadeva il violento alla bontà o alla rinuncia; il rissoso e il criminale, all’anelito al bene; il frodatore, alla sincerità e alla purezza; l’indomito ribelle, alla necessità redentrice del castigo.
Povero padre Lino: egli si era spontaneamente attribuito quella vita di rinuncia e di punizione che ai suoi penitenti era stata irrogata per pena: e chi lo avvicinava, scorgeva nella sua semplicità, l’assunzione a un mondo superiore e, dai comuni mortali, inesplorato. Si parlò, dopo la sua morte, addirittura di santificazione; e se questo, era portato, dal sentimento del popolo, al quale egli si era dedicato e che aveva in letizia servito, poteva, fuor della sfera delle autorità competenti, esser pensato, di ciò egli avrebbe probabilmente sorriso, nella somma modestia che lo aveva sempre distinto. Ciò gli è mancato, e mai egli vi avrebbe pensato, se non per considerarne l’assurdo: ma ha avuto qualcosa di meno e di più: e lo attestano i fiori e i ceri, che mai mancano alla Sua tomba: di creare in noi, in ciascuno di noi che l’abbiamo conosciuto, carcerati o professori, una particola di fede e di bontà; carità, ancor questa, del misero fraticello, cappellano di carcerati.
Renzo Provinciali